lunedì 13 febbraio 2017

Di levità e gravità: l’insostenibile peso dell’esistenza

Di levità e gravità: l’insostenibile peso dell’esistenza
o l’insostenibile leggerezza dell’essere

“La ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.”
(Italo Calvino)

Scriveva Calvino - preparando il testo di una delle lezioni che avrebbe dovuto tenere ad Harvard - “Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi del nuovo millennio sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come cimiteri d’automobili arrugginite”.  Sotto il velo di una pungente ironia, l’autore snocciolava così il segreto di un futuro vivibile e il mistero del fare lo scrittore. Il lavoro di qualcuno che voglia creare arte con le parole, infatti, sta nel togliere peso alle cose: quel costante e minuzioso lavorio di chi si erge su una ‘leggerezza pensosa’ per approcciarsi alla realtà in maniera diversa – senza perdere consapevolezza. A confermarlo, il mito di Perseo: “per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che è più leggero […] e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio”. Affrontare l’opacità del mondo, l’insostenibile peso del vivere, è possibile quindi solo attuando una sottile resistenza, guardando di sbieco il mostruoso nulla che avvolge l’universo. Sostenendosi nella levità dei dettagli che compongono strutture più complesse, così come aveva fatto Lucrezio nel suo De Rerum Natura, si può sperare di innalzarsi al di sopra di tutti quei sistemi macchinosi che fanno parte del naturale corso del mondo. Un lettore superficiale potrebbe qui cadere nel facile errore che la leggerezza di cui parla Calvino sia disinteresse o vigliaccheria - incapacità di affrontare una realtà che si va via via pietrificando. In realtà, così come Perseo nascose il volto della Medusa pur avendone visto l’orrore, Calvino ci spinge ad una leggiadria perfettamente consapevole della realtà che ha intorno e che l’ha assunta ‘come proprio fardell0’. Del resto, la stessa, è anche estremamente fragile e delicata, e proteggere quelle fragilità è uno dei compiti dell’uomo, che è in prima persona un contenitore di mancanze. “Ma come possiamo sperare di salvarci in ciò che è più fragile?” A darci la risposta è Leopardi, l’uomo che più fece della sua fragilità un punto di forza e un’occasione per tendersi all’infinito e alla bellezza. È infatti nell’estrema precarietà dell’uomo, nella sua perenne condizione di sofferenza, che Leopardi riesce a raggiungere i limiti dell’umano e trovare la sua ragione di vita: il canto, nonostante tutto. Un canto che ha il pallore e l’inconsistenza della luna a cui rivolgeva quesiti irrisolti; una poesia che è specchio di un’immensa vastità di bellezza; una lirica che riesce a raggiungere le profondità dell’io per innalzarsi a diventare universale. Come La ginestra, che di fronte alla maestosa potenza del vulcano si piega ma continua ad effondere il suo delizioso profumo tutt’intorno, Leopardi si rifiuta di arrendersi alla Natura, al deserto e all’aridità della vita, e nonostante sia soggiogato dal dolore si spinge sempre più in alto, sempre più a fondo, tendendosi verso quel rapimento che aveva avvertito nell’anima come un richiamo. Non vi è poeta più leggero di Leopardi, il quale scrisse con “quella speciale modulazione lirica ed esistenziale che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia”. Leopardi non ha paura di sfidare le forze di gravità, ma si libra nel cielo come un passero, rivelandoci che in realtà gravità e levitazione non sono opposte ma necessarie e complementari: senza le leggi fisiche di pesantezza, i pianeti non potrebbero rimanere sospesi nel vuoto. La leggerezza è dunque non solo un modo di scrivere – e scrivere in maniera sublime – ma un vero e proprio modo di rapportarsi alla vita, forse per renderla più vivibile. “Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro...”. Nel racconto Il cavaliere del secchio, Kafka narrava la storia di un cavaliere che, dopo aver cercato inutilmente del carbone da una donna che ne aveva le tasche piene, fu sollevato dal suo secchio vuoto e portato oltre le Montagne del Ghiaccio. Questo secchio vuoto “segno di privazione e desiderio e ricerca […] apre la via a riflessioni senza fine”. La più importante è indubbiamente che se fosse pieno, non avrebbe la facoltà di innalzarsi in volo: a dimostrazione che la letteratura, così come l’arte in generale e forse anche la vita, ha bisogno di nutrirsi di mancanze per esistere e rivelarsi nella sua grandiosità. E che alla fine, come conclude Calvino, affacciandoci al futuro non possiamo aspettarci niente di più di ciò che vorremo portare nel nostro umile e misero secchio vuoto.






Nessun commento:

Posta un commento