La morte,
grande o piccola che sia, è intorno a noi. Così va la vita. […] Tra le cose che
Billy non poteva cambiare c’erano il passato, il presente e il futuro.
(Mattatoio
n.5, Kurt Vonnegut)
«Si può compiere un massacro solo se si considerano le vittime non come individui simili a noi, ma come semplici pedine o cifre anonime nel mondo immaginario o da incubo fatto di amici e nemici, buoni e cattivi, in cui pensiamo di vivere e che perciò creiamo, oppure naturalmente se si è solo dei sempliciotti o dei sadici». Così
scriveva Leonard Woolf raccontando gli anni
del secondo conflitto mondiale, gli stessi che avevano preceduto la rovinosa caduta negli abissi degli inferi della sua
amatissima Virginia. L’arte non è mai rimasta dietro le quinte in ciò che
succedeva nella società, anzi. Se c’è una cosa che solo l’arte può fare, è
raccontarla, questa umanità, senza veli, in maniera intima, in tutto il suo
travagliato percorso. Non si limita ad un’analisi fredda degli eventi, ad un
clinico ‘quadro della situazione’: va in profondità, a scavare nelle viscere di
ogni uomo. E nessuno mai, in tutta la sua produzione letteraria, si è potuto esimere
dal porsi di fronte a quella voragine oscura di crudeltà che risiede nei
recessi di ogni creatura. Lo facciamo e ci interroghiamo sul perché di questa
cattiveria, perché in fondo sentiamo tutti l’istinto a compiere del male, a farci del male. Ché alla fine fare del
male a qualcuno che è fuori di noi, è semplicemente distruggere noi stessi. Se
c’è una cosa che il Rinascimento ci ha insegnato è che ognuno di noi è prima di
tutto un individuo. Ciò significa che l’unicità – l’essere vivo, strano vero?,
vivo – che sentiamo ogni qual volta qualcuno ci ferisce o ci ritroviamo soli di
fronte alla parte più nuda e meschina di noi stessi – che comunque ci ostiniamo
a proteggere e difendere – è qualcosa che appartiene all’intero genere umano.
Ed è proprio per questo che c’è qualcosa di magico, misteriosamente
incantevole, nel trovarsi al mondo e essere umani.
C’è qualcosa in più anche rispetto alle bestie: questo sentirsi io, parte di
una collettività e allo stesso tempo intimamente singoli. «Questa combinazione di odio assoluto per la crudeltà e di intensa
consapevolezza dell’individualità non è casuale. […] – continua Leonard - Per me “il nemico è la morte”, perché è la
morte che distruggerà, spazzerà via, annichilerà me, la mia individualità, il
mio io. Ciò che è così difficile da capire e sentire è che tutti gli altri
esseri umani hanno un io molto simile, provano le stesse sensazioni di piacere
e dolore, hanno la stessa spaventosa consapevolezza della morte, annientatrice
di quest’unico io». Ed è forse in questo egoismo che si può ricercare –
ammesso che ce ne sia uno – il senso di questo continuo correre al massacro,
all’uccisione, alla distruzione. È proprio come il Marinaio di cui ci racconta
Coleridge, ormai vivo-nella-morte, che
ha ucciso senza nessun motivo il suo unico salvatore – l’albatross – eppure l’ha
fatto. Ci portiamo tutti questo marchio di colpa fin dalla nascita, e ci
sentiamo schiacciati da esso, destinati a compiere fatidicamente quel male che
non vorremmo a chi più ci assomiglia e a chi più è debole nella società. Duro
da accettare, ribrezzante pensarlo: ma come con orrore fu costretto a notarlo
Vonnegut – uno degli artisti più umani
che il mondo abbia mai visto dalla sua creazione – queste guerre che macchiano
e decimano sono crociate di bambini. Non
sono i pazzi – come Hitler, Mao, Mussolini – a combattere questi spietati e
spaventosi macelli e a rimanerne vittime: sono giovani che si uccidono tra di
loro. C’è un modo per fermarlo? C’è anche
solo un modo per capire perché? Vonnegut, dando voce a degli esseri alieni e
superiori, ci dice in maniera spiazzante che: no. È una caratteristica
tipicamente umana – di chi è fragile – questo cercare spiegazioni o pensare di
poter invertire il naturale corso delle cose. Ma, ahimè, “così va la vita”.