lunedì 8 maggio 2017

Arte come intuizione lirica

Un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione, ecco l’arte.
(Benedetto Croce)

Benedetto Croce
Definire il concetto di Arte è pressoché impossibile dato il suo carattere soggettivo e non oggettivo. Benedetto Croce, uno dei filosofi più in vista del ‘900,  ne diede però una definizione abbastanza completa: «l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia». Per comprendere meglio questa affermazione, bisogna risalire alla classificazione che Croce aveva fatto dello Spirito. Esso si divide in due forme fondamentali: teorica e pratica. È alla prima che l’Arte appartiene, insieme alla filosofia stessa, e si definisce come ‘intuizione individuale’ che fa riferimento alle singole entità. Partire da intuizione era necessario per mettere in chiaro, fin dall’inizio, che non vi era niente in comune con la definizione di bellezza oggettiva che Kant aveva dato – per cui il bello è ciò che procura piacere, un piacere necessario e riconosciuto dalle masse. L’Arte per Croce ha una connotazione tutta intima e inspiegabile (cioè a-logica): percezione. Non può esistere bellezza, quindi, al di fuori dell’individuo che la avverte, della fantasia che lo crea. Non si può, insomma, considerare l’Arte prescindendo da chi l’ha pensata e da chi la sta ricevendo: «la fantasia dell’innamorato crea la donna a lui bella e la impersona in Laura; la fantasia del pellegrino il paesaggio incantevole o sublime e lo impersona nella scena di un lago o di una montagna». Oltre a ciò, la materia artistica, essendo parte di quella forma teoretica dello Spirito, non è soggetta all’utile o alla morale. Non è quindi da considerarsi subordinata a ciò che viene ritenuto dalla società ripugnante, né deve avere uno scopo se non quello di ubbidire a quel dovere morale dell’arte che ha come fine l’arte stessa, ossia la bellezza. Una bellezza che deriva dalla contemplazione, riflessiva e costante, dei sentimenti, delle passioni, di tutto ciò che agita il cuore dell’uomo. Tutto ciò, però, depurato dalla tumultuosità che deriva dall’immediatezza della sensazione. Scriveva Svevo che era attraverso la scrittura che meglio comprendeva lui stesso. È proprio per questo motivo che la forma – che può essere l’immagine, la scrittura, il suono – in cui viene rinchiuso quel sentimento che sta generando Arte diventa un processo di catarsi; un modo quindi di distanziare ciò che si prova per guardarlo attraverso una lente d’ingrandimento. Arte è, quindi, tutto ciò che suscita emozione nell’animo umano; tutto ciò che provoca turbamento, che esplode nell’aria come un richiamo atavico, risalente dalle viscere stesse del proprio corpo. E la bellezza, quella vera, provoca un piacere disinteressato, un piacere in grado di liberare dal dolore e restituire la libertà. Era questo, del resto, che affermava Schopenhauer, ammettendo che l’Arte è una delle vie di liberazione da quelle dinamiche che cercano di appropriarsi della nostra esistenza privandoci della facoltà d’azione. E la cosa più stupefacente, quella che sembra quasi paradossale per quanto è vera, è che nonostante l’Arte sia intuizione individuale, nasconde sempre un qualcosa di universale. È per questo che ne siamo attratti: perché racconta, sempre, di noi. «In essa [nell’arte], il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; ed ogni schietta rappresentazione artistica è se stessa e l’universo. In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori, le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo». (Benedetto Croce)


sabato 22 aprile 2017

Sic itur ad astra, l’anelito alla vita


Ho cercata la pace di me stesso accordando il mio cuore col ritmo cieco delle cose mute. Mi son dissolto nella forza vergine del vento e delle cime, ma dopo il rapido oblio mi son sentita l’anima ululare e dibattersi ancora, raffica ansiosa e anelante in eterno.
(Cesare Pavese)


Secondo Schopenhauer, la brama di vivere è quel moto incessante che sta alla base di ogni azione umana. È la volontà - l’anelito - al realizzarsi, al giungere a un compimento, a sentire qualcosa di pulsante, di vero. Scrive Roberto Vecchioni nelle sue Storie di felicità: la felicità la voglio addosso come una febbre. Ed è proprio in questa febbre, in questo stato di contrita tensione, che Cesare Pavese immerge le sue poesie. Scritte negli anni in cui la guerra aveva lasciato il posto ad un’attesa che aveva il sapore di sospensione, le liriche raccolte nelle opere precedenti a Lavorare Stanca sono tra le più belle di tutta la letteratura italiana. Morte, sangue, fatica, dolore, silenzio, amore si fanno strada tra le viscere del poeta per raccontarci di un’angoscia soffocata e di uno strazio dilaniante. Ci sono anime al mondo che sentono il peso dell’esistenza in maniera più intensa rispetto ad altre: per esse, anche un lieve cambiamento ha l’irruenza di uno sparo. Sono quelle che vedono più in profondità, fino alle radici, e non si arrendono davanti agli ostacoli che incontrano nel cammino. L’esistenza di Pavese – e la sua ricerca poetica – furono percorse da un istinto ancestrale, una ricerca appassionata: il midollo della vita. Fu in quel disperato tentativo ad innalzarsi che si delineano i versi più cupi, stanchi e intimi della sua produzione. Pavese ci racconta del desiderio di consolazione, di compagnia; della brama di un amore che sia abbastanza, di una fragilità di cui prendersi cura, di una vita che potesse andare oltre la superficie e scavare a fondo senza paura. E la rincorreva, quella vita, con tutte le sue forze, incespicando, affannandosi, incalzando la penna a scrivere e scrivere le fatiche e il disagio della lotta. Confessa in Al lento vacillare stanco: “Vita vita tremenda / che mi agitavi in un dolore ardente / e mi sconvolgevi nel cuore / ogni goccia di sangue, / in una pienezza indicibile, / che mi mutava il colore la voce e fin gli ultimi gesti / ad ogni apparire leggero / dei suoi occhi profondi, / scuri cupi, / perduti / nel viso pallido triste / sotto la lieve nuvola bionda, / fragile come il suo corpo, / dei tenui capelli evanescenti: / vita vita di sogno / perché ti sei spenta / così nel mio cuore?”. Circondato da uomini indifferenti, perfettamente a loro agio con un mondo che li masticava e sputava dopo averne preso l’essenza, scontò fino alla fine la condanna di una solitudine che assomigliava ad un trinceramento, ad un esilio volontario. Riecheggiano i versi di Ungaretti: “lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata” (Natale, Ungaretti). La letteratura costituì la sua unica scappatoia: l’ennesima via per esplorare l’angoscia e cercare una via d’uscita, un lume verde, una feritoia illuminata. Forse è per questo che non si riesce a scorgere viltà nel suo gesto finale – quello di suicidarsi; piuttosto una disperazione strozzata; l’epilogo di un percorso che non sembrava avere altra fine. Perdono tutti e chiedo a tutti perdono: non poteva più fingere, non riusciva a sopportare più di vivere in un modo che non era vita, “di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento diverso che tanto sente inutile e non suo” (Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi, Pavese). Dimenticava, però, che è proprio così che si giunge alla vita. È in questo che si scorge il suo senso ultimo: nel proseguire, anche senza forze, la propria battaglia; nel rimanere fedeli fino alla fine al proprio iniziale anelito alla vita. Sic itur ad astra: così si giunge alle stelle, diceva Apollo al figlio di Enea. Nonostante le asperità, le selve in cui ci troviamo a volte rinchiusi, c’è ancora una possibilità, la più bella promessa di vittoria: “e quindi uscimmo a riveder le stelle” (Dante, Inferno).