mercoledì 21 dicembre 2016

Accecati da una stella

“Era questa, evidentemente, la sostanza della vita: un trionfo confuso che li accecava tutti, sirena nomade che li faceva accontentare di uno stipendio magro e dell’improbabilità aritmetica di un successo finale.”
Belli e dannati, Fitzgerald


Desideriamo tutti sapere che nella vita potremo farcela. Che c’è una possibilità, una speranza anche per noi, non importa chi siamo o da dove veniamo. È il sogno americano, quello che ha affascinato generazioni e generazioni durante i ruggenti anni ’20: uomini e donne che hanno iniziato a rivendicare la propria identità e a farsi strada nel mondo. È una caratteristica dell’uomo, del resto, questa mancanza, questo vuoto insondabile da riempire. Nasciamo con la spinta a realizzarci, a cercare qualcosa in più, a desiderare. E desiderio, che letteralmente significa ‘mancanza di stelle’, sembra quasi ricordarci quanto in noi sia radicata la voglia di guardare verso il cielo e sentirci improvvisamente elevati fino a toccare l’infinito. Quelle stelle, ci abbagliano. A volte, ci accecano. I protagonisti dei romanzi di Fitzgerald sono forse i personaggi letterari che più ce lo raccontano meglio. Calati nelle atmosfere sfavillanti e ricche dell’America degli anni ’20, non riescono mai a sentirsi realizzati. La loro è una continua, ostinata, disperata tensione verso una luce verde, un sogno, un obiettivo. Sono così innamorati delle loro idee da struggersi per afferrarle, a volte distruggendosi. Soggiogati, si lasciano annebbiare dall’alcool, dalle feste sfrenate che il proibizionismo dell’epoca cercava di combattere, dall’illusione – o speranza, come la si vuol chiamare. Ma il loro desiderio è destinato ad esaurirsi in se stesso, afflosciandosi, umiliando chi lo ha intensamente provato. Ed è quasi paradossale, assurdo, notare quanto esso si sia ormai impadronito totalmente di loro, tanto da diventarne vittime. Neanche sull’orlo della morte, del declino, riusciranno a rinnegare ciò che li sta uccidendo. Fitzgerald stesso era un fallito. Un misero, disgraziato fallito. Un uomo che aveva cercato con tutte le sue forze di raggiungere il suo sogno, di riscattarsi da una vita che lo vedeva perennemente insoddisfatto, da un amore che si era rivelato illusione. E neanche lui, come i suoi personaggi – le sue copie – riuscirà mai a realizzare il suo desiderio. Più vi si protendeva, più cadeva in basso. Ed è per questo che i suoi romanzi sono così rivelatori, spiazzanti, veri. Ci raccontano per quello che veramente siamo: esseri che accecati cercano di raggiungere la propria meta, senza riuscirci. Sprofondando così, inevitabilmente, dentro noi stessi. Non sembra esserci redenzione a questo. Fitzgerald non vedrà mai il successo, durante la sua vita. Il suo sarà un fallimento che si porterà nella tomba. L’unica consolazione che gli resta, a distanza di quasi un secolo, è sapere che nonostante tutto, c’è qualcuno che continua a leggerlo, emozionandosi, vivendo con lui quell’inevitabile fallimento a cui tutti, fatalmente, siamo chiamati.

“E mentre sedevo a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l'aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa - domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... e una bella mattina... Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato”.
(Il grande Gatsby, Fitzgerald)



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