martedì 24 febbraio 2015

Una chiaccherata con Paolo Sessa.

Buonasera a tutti!
Dopo aver letto 'Specchio delle mie trame' (la raccolta di racconti di Paolo Sessa), spinta dal desiderio di conoscere maggiormente l'autore e il suo libro sono riuscita a farci una chiaccherata. Ecco cosa ne è venuto fuori. Un abbraccio!



Buonasera, innanzitutto la ringrazio per la sua disponibilità e poi vorrei farle i complimenti per il suo lavoro. Mi è piaciuto davvero tanto, anche se mi ha lasciato qualche punto interrogativo. Volevo per prima cosa chiederle: quando è iniziata la sua avventura con la scrittura e cosa l’ha spinta ad intraprendere questo tipo di ‘lavoro’? 

 Non so se scrivere sia un'avventura, ma se la vita lo è, lo è anche la scrittura. Scrivere (almeno per me) è come mangiare e bere e, naturalmente, leggere. Scrivo da sempre, da quando ho imparato l'alfabeto. Questo lavoro di scrittura creativa (si chiama così?) è il mio primo, ma la sua genesi è lunga e sofferta, un bel poco di anni, perché quando scrivo sono paranoico, aggiusto continuamente finché, come diceva il buon Dante, "dal fatto il dir non sia diverso"; e cioè che i fatti che si raccontano e il linguaggio che li racconta si rispecchino come una sola cosa (c'è troppa spazzatura in giro! e la scrittura è cosa seria!). Sembrano sei racconti, ma sono sei romanzi prosciugati da tutte quelle cose inutili e ripetitive che di solito un romanzo contiene (tranne nei grandissimi). Nei lunghi anni di studio di letteratura inglese, ho fatto mia l'idea di epifania della Woolf e di Joyce; si tratta di rivelazioni improvvise, di emersioni della coscienza, di verità profonde che il nostro stato cosciente di solito non vede o rifiuta. Quanto a chiamare “lavoro” la scrittura dello Specchio, mi corre l’obbligo di dire che non si tratta della mia occupazione principale: io sono soprattutto un linguista, mi occupo di voce e di lettura ad alta voce su base neuro-scientifiche e linguistiche. Ho appena completato uno studio sul tema che aspetta un editore; ho all'attivo un saggio (in collaborazione con il prof. Imbasciati dell'Un. di Brescia, sull'influenza della voce materna sul nascituro, ed. Maimone). Bene! ho voluto applicare i miei studi sulla voce e sulla lettura dei testi alla scrittura creativa, e ho scritto lo Specchio.



 ‘Specchio delle mie trame’ è un libro altamente introspettivo e, per certi versi, singolare. Da dove nasce l’idea di questa raccolta di racconti? 

 L'idea iniziale dei primi due era di scrivere dei romanzi ma, come ti dicevo, col tempo ho sempre più maturato la profonda convinzione che il romanzo non è più forse il genere per il nostro tempo: con le sue continue digressioni su questioni spesso marginali rispetto al nucleo narrativo, col suo voler dire e spiegare tutto, ogni azione, anche la più banale, col suo adagiarsi sulle descrizioni di ambienti anche quando non hanno alcuna interferenza con la storia principale, il romanzo finisce coll'essere spesso una paccottiglia (tranne, ripeto, nei geni, ma allora si contano nelle dita di una mano: Marques, Pennac, Borges, etc. italiani niente, o pochissimi, etc.). Allora, nella stragrande maggioranza dei casi, ci ritroviamo con quella che Richard Hoggart chiamava "puff-pastry literature, with nothing inside the pastry" (leggi: letteratura pasta-sfoglia con niente dentro), come il 90% della letteratura che viene pubblicata tutti i santi giorni, una letteratura che pare esprimere nient'altro che un mondo di zucchero filato. E lo Specchio è diverso? Non lo so: ci ho provato, partendo dalle cose che ho appena detto.
A proposito di racconto o romanzo, ti cito quello che ha scritto un fine conoscitore di letteratura a proposito dello specchio (se può servire a chiarire quello che ho detto):

"Siamo proprio convinti che si tratti di una silloge di racconti autonomi e non di un nuovo genere di romanzo? Ma perché Sessa ricorre a questo espediente, perché nasconde un romanzo entro una silloge di racconti? Semplice: Sessa non sente più il romanzo, la longa fabula, come la forma narrativa fondamentalmente rappresentativa del nostro tempo. Il romanzo lo obbligherebbe a scrivere in un modo che egli non ama. Per fare, dunque, di ogni racconto di quest’opera un romanzo, sarebbe stato necessario immettere nel testo delle espansioni che Sessa non ama, e che considera “spazzatura”. Esempio: per far divenire un romanzo il racconto del “Caso Lodini” sarebbero occorse delle espansioni o delle digressioni più lunghe che avrebbero conferito al testo, o una liricità ridondante che mal si adatta alla prosa, oppure una melensità del tutto ordinaria e, nondimeno, necessaria, del tipo: “Il maresciallo era seccato” e di conseguenza spiegarne le ragioni; aprire una prolessi di almeno tre pagine per spiegare cosa l’aveva, in precedenza, infastidito: una lontana e traumatica rimembranza del rinvenimento del suo primo cadavere quando era entrato in servizio, ad esempio, sul lago di Garda? Oppure l’aver dimenticato a casa l’accendino? O il pacchetto, con le due ultime sigarette che aveva in tasca, si era bagnato, in quella operazione di ripescaggio del cadavere? Sarebbe stato necessario, dire qualcosa in più del palombaro; se era “affannato” ci doveva essere un motivo: era fuori forma? era ammalato? aveva pranzato molto tardi quel giorno, e digerito male, aveva avuto una brutta discussione con la moglie? Bene anche queste cose fanno un romanzo! Ma Sessa, da buon postmoderno, sa che tutta questa “spazzatura”, immagine speculare della vita quotidiana, non è più letteratura, per cui la scarta e se ne tiene lontano. Il romanzo, sembra volerci dire Sessa, si può scrivere in modo diverso, operando il rovesciamento tra personaggio e tema, nascondendo l’unità nel frammento e ricucendo il frammento in una superiore e non fittizia unità funzionale".

 (Lucio Paolo Alfonso, “Specchio delle mie trame” di Paolo Sessa: sei personaggi in cerca di sé stessi", La voce dell'Jonio, 30 gennaio, 2015.) 

Definisci “singolari” queste storie; non so quanto singolare sia questo Specchio; il tema credo sia un topos abbastanza conosciuto e, quindi, non proprio originale. Che ci vediamo in uno specchio? Quello che siamo e non vorremmo essere? Quello che desideriamo? Quello che temiamo? Quello che siamo dentro e perciò non vediamo? Finti ricordi? False dimenticanze? In questo Specchio ogni personaggio, in un modo o nell'altro, ci trova la sua epifania, rivelazione.
Quanto all’introspezione, mi chiedo se un testo di narrativa che parla di uomini e donne possa non essere introspettivo. In effetti, capita e, purtroppo, di sovente. Ma, mi chiedo, se un testo di narrativa non entra nei suoi personaggi, non ne scava la coscienza e ne cava i sentimenti più nascosti, le ansie, le fobie, le paure, il passato nascosto, che libro è? Mi spiego: cosa c'è (o ci dovrebbe essere) in un testo di narrativa? Una storia (più o meno complicata), un modo di raccontarla (la sua struttura narrativa) - insomma una story e una plot - e poi (last but not least) le parole, i suoni, la sintassi, il ritmo con cui la storia viene raccontata.
Cominciamo dalla storia: in una storia ci aspettiamo che ci siano dei personaggi (anche uno solo) che fanno delle cose o a cui capitano delle cose; questi personaggi saranno alti, bassi, belli, brutti, biondi, scuri, etc.; ma penseranno pure, ameranno, odieranno, proveranno ansia o paura, avranno un passato, rimorsi, cose da dimenticare, per Dio, e altre da ricordare, per Giove. Mio nonno mi raccontava sempre delle storie quando ero bambino, ma lì bastava una sequela di avventure e l'intreccio, che mio nonno era bravo a variare (quale introspezione? - tutt'al più un poco di morale: uno era o buono o cattivo). Ma un romanzo, per di più in quest'epoca di profonda crisi delle coscienze, di profondo disagio, può non essere introspettivo? E che facciamo? Raccontiamo storielle? O scriviamo gialli, rosa e storie alla Rowling (per citare quelle buone nel loro genere).
Andiamo alla plot: la struttura del narrare può essere lineare, come le storie di mio nonno o come gli spaghetti nel pacco; oppure essere contorta, complicata, che va e torna come nel libero fluire del nostro inconscio o come gli spaghetti nel piatto, tutti attorcigliati e col sugo sopra a far ulteriore casino. Se non vogliamo la storiella alla Oliver Twist (grande nel suo genere), ci rimane il tormento di Ulisse e del suo viaggio fuori (nel mare) e dentro (nella sua coscienza tormentata). Ognuno scelga: io l'ho fatto!
Andiamo al linguaggio: io amo seguire il consiglio del buon Padre Dante, anche scrivendo in prosa, con l'obiettivo che "dal fatto il dir non sia diverso"; insomma, che le parole coi loro significati, ma anche con la loro materia sonora esprimano il senso nella stessa direzione; da qui, la ricerca tormentata della parola "giusta", anche per come suona, della posizione giusta nella frase perché scivoli libera o crei inciampi laddove la coscienza del personaggio ne incontra; da qui, la sintassi "giusta" perché il pensiero corra assieme alle sue strutture, ingarbugliate se lo è il pensiero del personaggio (in quel momento), liquide, se rilassato. E allora? per una conclusione provvisoria, direi che scrivere è sofferenza; lo scrittore è un masochista o, nel migliore dei casi, un diverso, un estraneo a se stesso, ma generoso al punto da lasciare un piccolo spazio dentro di sé al demone che scriverà per lui; sì, perché a scrivere non è lo scrittore, ma il demone che lo abita.


Riallacciandomi alla sua opinione sulla letteratura, che ho particolarmente apprezzato: nell'ultimo racconto il protagonista è uno scrittore che cerca risposte proprio nella letteratura … anche se, in qualche modo, (da quanto ho capito io) sembra non trovarne o, se ne trova, si tratta di risposte che contengono altri quesiti ancora più intricati. Anche lei vede la scrittura come un modo per esplorare la vita? Ed è riuscito a trovare risposta, grazie ad essa, a qualche sua domanda? Qualcuno ha detto in passato che l'uomo è irrimediabilmente condannato a parlare sempre di sé quando scrive, forse per manie egocentriche o per bisogno di essere ascoltato.. c'è uno dei protagonisti che le assomiglia? 

Andiamo alla pima domanda: non credo che la scrittura debba fornire risposte di alcun tipo, anche se poi il lettore ci può trovare quello che cerca. Lo scrittore, no, non fornisce risposte: basterebbe leggere i sei casi allo specchio per capire che risposte non ce n'è e che ognuno deve cercare la sua tra le pieghe del libro, tra le righe. Ma lei parlava dell'autore: non lo so; forse non ne trovo neanch'io come non ne trova Luca Murgia. Lui s'intrippa sulla questione se la letteratura abbia a che fare con la morale e se sia morale travestire di letterario la realtà (mettere dei gabbiani, che fanno colore, attorno al cadavere di un suicida). Non lo so, forse la letteratura, l'arte in genere, è amorale di per sé. 
Ricorda Wilde? Non esistono libri morali e libri immorali; esistono solo libri scritti bene e libri scritti male.
Personalmente, non credo che la scrittura abbia o debba avere alcuna missione speciale. Tranne ad avere la necessità di informare il panettiere che non deve lasciare il pane per quel giorno, si scrive per dare corpo a emozioni, esperienze anche interiori e, perché no, si scrive anche per giocare con le parole e cavare dai loro suoni esperienze significative che non sempre appartengono in modo plateale alla vita; a volte appartengono semplicemente al mondo dell’arte e del linguaggio.
La scrittura, in fondo, è un artificio, è un gioco complicato che spesso va per conto suo (lo sanno meglio i musicisti-compositori); lo scrittore ne tiene la direzione solo apparentemente; poi, nel corso del processo, la scrittura prende la sua strada, che forse è proprio la strada di quell’altro che lo scrittore generosamente ospita dentro di sé, dentro lo specchio. Certo, quando scavi nella tua psiche o in quella dei tuoi personaggi, forse vedi meglio te stesso; ma il regalo più bello che puoi fare al lettore è renderlo partecipe del tuo lavoro evitando di fornirgli risposte definitive e invitandolo a ricercarne una tutta sua. D'altra parte, ogni lettura è di necessità una riscrittura.
No, io risposte non ne trovo e non ne cerco. L'arte non serve a questo; forse la filosofia.
Andiamo alla seconda domanda, scontata ma inevitabile! Tutti gli scrittori parlano sempre di sé, ma non per egocentrismo; per una cosa molto più banale: ognuno parla di quello che conosce; e che cosa conosciamo meglio di noi stessi? Come diceva Fluaubert, "madame Bovary c'est moi". C'è un protagonista che mi rassomiglia? Tutti e nessuno: un poco sono Dino con la voglia mattissima di avventure estreme, nell'immaginario, nel mito, nel sole; un poco sono il tizio senza nome del secondo racconto, un diverso (uno cui può anche capitargli che gli cresca una coda), un poco albatros (un altro diverso), un poco poeta (un altro diverso): uno straniero, insomma; un poco sono Mario (la sua infanzia è simile alla mia, padre minatore in Francia, attentati degli algerini, siamo fine anni '50) col desiderio dell'arte portata all'estremo sacrificio; un poco Alberto: amo e temo la solitudine, odio la tracotanza e il pressappochismo; e, naturalmente, un poco Luca Murgia con tutte le sue fisime sulla letteratura, l'odio per le zanzare e un'esperienza sessantottina alle spalle. Che vuoi sapere di più? Mi somigliano un poco tutti, ma se può tranquillizzarti, mi somigliano pure i fratelli Karamazov, Oliver Twist, Amleto, Re Lear, Adso (il monaco di Il Nome della rosa) e così via. Mi somigliano tutti perché sono uomini, come me e te, perché tutti abbiamo più o meno le stesse angosce, desideri, pulsioni di morte, perché tutti cerchiamo qualcosa, e perché tutti conosciamo l’Ennui baudelairiano:

                                                        Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
                                                  Hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère!



Leggendo il suo libro ho avuto due dubbi riguardo due storie. Nel racconto “Il Clown’ - che prima lei ha citato - il protagonista è ossessionato dai ricordi. Da dove deriva questo attaccamento così morboso verso essi? E nel racconto ‘una domenica’ vi è un episodio un po’ particolare che ha suscitato la mia curiosità: un incontro ‘intimo’ con un ragazzo al cinema. Cosa l’ha spinto ad inserirlo e che valore ha nella storia?


Tutti i protagonisti sono più o meno ossessionati dai ricordi, chi più chi meno, tranne forse Dino, l'unico in viaggio verso un futuro talmente straordinario e sublime (nel senso romantico, bello e terribile) che non può voltarsi verso il passato. In quanto agli altri personaggi:
- per il personaggio della coda (l'unico che non ha nome) il ricordo è quasi terapeutico nel senso che lo aiuta a ricostruire un'identità che ha perduto (a causa di un incidente? di una lobotomia per guarirlo da una coda fantasma?);
- Alberto è il più solitario di tutti: la vita un fallimento; solo i ricordi possono aiutarlo (Agnese coi suoi baci alla festa, la scuola da ragazzo col Gigione per compagno, la sorella Ida, la morte del padre, etc.);
- il signor Gozzi vive un super-presente immediato: sta facendo una colonoscopia e i ricordi (di quando era studente, delle sue manie sul volo, etc.) lo aiutano a distrarsi dal terrore che prova all'idea della malattia e dell'invasione sul suo corpo;
- Luca, lo scrittore, vive anche lui un super-presente: sta scrivendo un romanzo e i ricordi sono legati al suo rapporto con la moglie (entrambi ex-sessantottini) e a com'era un tempo;
- Mario, è vero, è quello più aggrappato ai ricordi, per due ragioni: 1. la morte del suo compagno di scuola gli ha lasciato una ferita aperta, mai guarita; 2. Mario, per certi aspetti, è quello che mi somiglia di più e nella sua storia ho buttato i miei ricordi di bambino in Francia durante la guerra con l'Algeria. Mario, inoltre, è un poco arrivato al capolinea: l'arte dell'assoluto, quella della risata dedicata ai bambini (al circo); quando arrivi al capolinea solo i ricordi ti fanno compagnia.

Quanto all'episodio col ragazzo al cinema: intanto è, o era un tempo non lontano, esperienza abbastanza comune; tieni presente che fino a una ventina di anni or sono la condizione degli omosessuali era di assoluta segregazione e certo non andavano in giro orgogliosi della loro diversità col loro compagno. Ad Alberto era ancora più facile (probabile) che capitasse: cinema di periferia in giornate feriali, da solo, etc. Nulla in particolare mi ha spinto ad inserire questo episodio: ho fatto semplicemente incontrare due "solitudini" diverse, ma complementari, entrambi alla ricerca di qualcosa. Nella storia, credo abbia il valore di accrescere il concetto di solitudine che è la marca caratteristica della storia di Alberto. Proviamo simpatia per entrambi, Alberto e l'anonimo ragazzo, perché sono due esseri soli.



C'è un racconto che le ha dato un po' più 'filo da torcere' nello scriverlo? E c’è un libro che apprezza particolarmente? Insomma, un po' il suo libro preferito. O anche un autore in cui riconosce del talento.


"Filo da torcere!". Bello! E’ una bella immagine dell’attività di scrittura di un testo (dal latino “textum”, tessuto fatto di fili), complicata, con tutti quei fili... Sì, ce n’è uno: "La coda", che poi è quello di cui mi sono innamorato di più, perché non sapevo quasi nulla dei processi mentali nei casi di amnesia (in casi di traumi) e di rinvenimento della memoria e perciò ho dovuto documentarmi scientificamente. Tieni presente che nulla è lasciato all'automatismo della scrittura in questo racconto e che tutto è stato passato al vaglio di casi concreti scientificamente esaminati di amnesia, con qualche libertà artistica. Quindi, la cura per la precisione nella descrizione dei meccanismi mi ha "stressato" un poco di più. Ma alla fine, ti dicevo, forse anche per questo, me ne sono innamorato.
2. "Un libro preferito"? E' ingeneroso chiedere a uno cresciuto a pane e libri di sceglierne uno solo. Dammi almeno tre possibilità (anche se non bastano neanche queste). Mi perdoneranno gli altri che pure amo alla follia, e spero non organizzino una rivolta alle mie spalle, in biblioteca, mentre dormo, la notte, in camera da letto. E, comunque, eccone tre: La Divina Commedia di Dante, il Re Lear di Shakespeare, l'Ulisse di Joyce. Me li porterei in un'isola deserta, certo di non annoiarmi mai: li puoi leggere mille volte e sono in grado di diventare mille libri, nuovi di zecca a ogni lettura. Quanto al "talento" in un autore moderno, ce ne sono tanti, anche in questo caso. Lasciami fare due nomi: Borges e Marquez. Più che avere talento, questi due sono semplicemente inarrivabili.


lunedì 9 febbraio 2015

Specchio delle mie trame - Recensione!

Specchio delle mie trame, Paolo Sessa.




€13,00
108 pag.
Giovane Holden edizioni
Collana: Battitore Libero
Edizione brossurata con alette.


"Nessuno di noi resiste alla tentazione di guardarsi allo specchio e quasi mai vi scopre quello che vorrebbe trovarci; è come se un homunculus invisibile e cattivo da dietro vi tracciasse trame per rovinarci la giornata o la vita."










'Specchio delle mie trame' è una raccolta di sei racconti, più o meno brevi, che condividono un elemento comune, un filo conduttore: uno specchio. Specchio che, essenzialmente, ha funzione 'metaforica': ogni personaggio, guardandosi, arriverà a scoprire, a scorgere, dettagli che prima non aveva notato. Dettagli non necessariamente solo fisici, ma anche riguardanti il proprio io, la propria coscienza. In questo modo lo specchio diventa una sorta di intermediario tra il personaggio e la sua anima, facendosi responsabile di rivelazioni sconcertanti che sconvolgeranno la vita di chi si sta riflettendo. L'impatto con esso sarà così decisivo e importante da portare i protagonisti - in alcuni casi -  a soccombere a ciò che si è scoperto - in altri - a invertire il proprio percorso di vita, migliorandolo.
Le storie narrate da Paolo Sessa sono storie che hanno tanto a che vedere con le nostre realtà: nonostante ci siano anche elementi leggermente surreali in alcune, esse raccontano episodi, sentimenti, situazioni che prima o poi tutti ci troveremo ad affrontare.
Solitudine, disagio, senso di inadeguatezza, ma anche passati e ricordi che sembrano non voler lasciare spazio ad un futuro o un presente più roseo: sono questi i veri protagonisti dei sei racconti.
E, se anche ad una prima lettura superficiale questo libro potrebbe sembrare assurdo o strano, leggendolo con un occhio più attento si possono individuare diversi significati nascosti. Prendiamo ad esempio il racconto 'la coda', dove il protagonista si ritrova con una coda che lo porterà all'isolamento e all'incapacità di comunicazione. Apparentemente potrebbe sembrare una storia alquanto bizzarra e surreale, ma in realtà si basa su un aspetto molto più profondo e significativo: la bestialità umana. Quell'escrescenza, quella strana coda, rappresenta la parte più recondita del protagonista - quella brutale, cattiva, falsa. Solo grazie all'esplorazione di essa, solo dopo aver capito i propri limiti e averli accettati, il protagonista potrà tornare a condurre un'esistenza normale ripristinando anche i rapporti che prima si erano interrotti proprio a causa sua.
Appare quindi adesso assolutamente lampante la grande capacità di introspezione di questo testo, sono proprio 'sei racconti/specchio della nostra coscienza', come recita la copertina. 
Inoltre, la narrazione fluida ma anche elegante e raffinata dell'autore - che si modella e si adatta ad ogni singolo protagonista - è uno dei maggiori punti di forza del romanzo: coinvolge il lettore, portandolo ad attraversare lo stesso percorso di  esplorazione verso il proprio io che affronteranno i protagonisti.
Leggere 'specchio delle mie trame' è una vera e propria avventura alla scoperta di noi stessi. Avventura che vi consiglio caldamente.


Voto: 8.5/10

lunedì 2 febbraio 2015

Petite - Recensione!


Petite, Geneviève Brisac.



€ 15,00
132 pag.
Piemme Freeway
Serie: Freeway Love
Edizione brossurata con alette.



"Non avrò più fame, mi dissi. Erano le sette di sera e avevo fame. Sul carrello della cucina, la torta di noci appariva stupenda, la glassa di cioccolato luccicava. Le dissi addio per sempre. Avevo tredici anni e avevo smesso di crescere. Non crescerò più mi ero detta. Mangerò soltanto l'indispensabile. Quel che serve per sopravvivere."







E' così che si apre la storia di Nouk: con questa decisione drastica, netta, precisa, che mette anche un po' i brividi.
'Non mangerò più'. E allora inizia la sua nuova vita, dove ogni giorno  si rivela come una continua lotta contro il cibo, contro i crampi allo stomaco, crampi dovuti a quella fame che ti mangia viva, ti logora dall'interno.
Ma la scelta di Nouk non è provvisoria, no, lei non cambierà idea. Lotterà per ottenere ciò che vuole, anche se fa male da morire. E la sua può sembrare una scelta banale, dettata da niente di concreto, se non dal puro e semplice gusto di dimagrire per inseguire un banale ideale commerciale di bellezza. In realtà non è così. Questa bambina, la nostra protagonista, è malata... malata dall'interno.
C'è un dolore, un malessere, un tormento che non le dà pace dentro di sé. Nouk vuole attenzione: vuole sentire l'amore dei suoi genitori, gli stessi a cui dedica bigliettini pregni d'amore e d'emozioni. Eppure, nonostante le sue continue dimostrazioni d'affetto, nonostante sia una figlia modello.. loro sembrano essere ciechi. O forse è lei, ad essere invisibile. Completamente trasparente.
Nessuno sembra accorgersi della sua sofferenza, nè le sue amiche, nè la gente per strada, men che meno i suoi parenti che sembrano essere sempre troppo impegnati e concentrati sui propri dolori e le loro vite.
Ma Nouk ha bisogno d'aiuto. C'è qualcosa dentro di lei, come un'assenza, un vuoto, che grida in modo disperato e malato. Questo qualcosa la sta consumando, pian piano. Non è più lei, sta diventando un'altra. Un'altra che non vuole più mangiare.
Ecco, forse sì, così riuscirà a farsi notare da qualcuno. Forse sua madre finalmente sentirà le sue disperate urla che invocano affetto.. comprensione. In fondo vuole solo sentirsi meno sola.
Ma l'anoressia è una malattia che non perdona: una volta essere caduti nella sua voragine, non si può far altro che sprofondare.. e allora giù, giù, giù nelle sue fauci taglienti e velenose.
Non c'è più modo di liberarsene. Nessun suo sforzo sembra valere. Ogni volta che ingerisce qualcosa sente del male, come se un acido le stesse corrodendo lo stomaco. Lei deve liberarsi di ciò che ingerisce.. altrimenti potrebbe anche morire.
Ed è così che inizia il lungo percorso di questa bambina che si troverà davvero sola, questa volta, ad affrontare il mondo. Con un problema in più che non le dà pace, mai.
Questa autobiografia un po' romanzata percorre con emozione profonda e travolgente la storia di una ragazzina che ha un problema troppo grande da sopportare e risolvere.
Nonostante sia un libro adatto anche a bambini, dunque non è troppo crudo, è una storia coinvolgente, intensa, delicata e malinconica. Carezza l'anima lasciando il lettore col fiato sospeso e un po' tanta amarezza in bocca. Le pagine, scorrendo una dopo l'altra, creano quasi un grosso groppo in gola che accompagna per tutto il libro; ogni parola è una lama che ti trafigge la pelle. Il dolore che ci viene raccontato in questo romanzo è un dolore che pulsa sulle pagine: è vivo, lì, lo senti anche tu nel cuore.
Nouk potrebbe essere tutte: me, te. Lei è una di noi, non è diversa, no, è semplicemente una bambina che si sente sola. Come tante persone qui nel mondo. Ed è questa una delle cose migliori di questo libro: la realisticità. La sua storia è la storia di tutti i lettori, lei è come una nostra amica.
E proprio per questo, ci ritroveremo pagina per pagina a tifare per lei, a desiderare quasi di poterle donare un po' dei nostri sorrisi.
Ma Nouk è forte, Nouk può farcela.
Deve solo trovare la sua dimensione. E una persona che la accompagni.
Una persona che ha vissuto e sa cosa significa soffrire.

Una lettura consigliata, uno dei miei libri preferiti in assoluto.


Voto: 9+/10

Ringrazio la Piemme Freeway che mi ha concesso di leggere questo bellissimo libro.